La piazza è vuota, sospesa, respira in attesa.
Da lontano risuona una voce profonda, ancestrale:
venti marinai, venti uomini, venti anime percuotono grandi botti di legno su un carro in movimento; le botti sono vuote, rimbombano avide, in attesa del grasso di balena. L’aria si squarcia e vibra. Il ritmo scandisce il lavoro dell’equipaggio. Raggiunta la piazza il carro fende il selciato. La musica si espande.
Gli spettatori assistono all’arrivo del carro, che diviene palco e in pochi secondi si trasforma in febbrile cantiere navale.
Asse dopo asse, sagole, cime e palanchi, i marinai iniziano a costruire la nave. Scheletrica, irreale. È il nostro Pequod.
Per tutto lo spettacolo si avvicenderanno lotte, fortunali improvvisi, allegre
scorribande; emergono caratteri, affiorano storie. Su tutti pesa l’ombra di Achab e il suo oscuro desiderio di vendetta, l’incubo dei marinai. Con un minuzioso lavoro di macchinazione si compirà l’atto inaspettato. La nave
diviene balena. Da tutrice a mostro. Quello che prima accoglieva ora terrorizza: lo scheletro dello scafo si ribalta e assume le forme del temibile leviatano. Finalmente i due nemici si troveranno faccia a faccia per lo scontro finale: Achab e la balena bianca. L’uomo contro la natura, il prodigio, l’ignoto, il dio perduto, la paura che urla dall’abisso: Moby Dick.